Gli incubatori di startup italiani: la situazione

Per molti immotivata e burocratizzata la scelta del Ministero dello Sviluppo Economico dello scorso gennaio, con il quale l’accesso all’albo degli incubatori innovativi, ed i relativi privilegi, veniva relegato solo ad una cubatura minima pari a 500 metri quadri, contro i 400 stabiliti in precedenza.

Il sistema startup italiano conta quasi 8.000 imprese iscritte nell’apposito albo che, però, non si occupano propriamente di “produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico” (Definizione del Decreto Crescita 2.0 del 2012 (legge 221/2012), ma si autocertificano come startup per poterne sfruttare i benefici economici. La mancanza di innovazione non permette di attrarre capitali di investitori.

La situazione si rivela controversa anche per gli incubatori: negli Usa si può offrire supporto alle startup solo se si è già stati in grado di vendere una propria società per almeno un milione di dollari. In Italia, la mancanza di requisiti validi ha permesso la creazione di un numero esagerato, di dimensioni esigue, che non si sta rivelando in grado di assicurare guida e supporto nella creazione dell’impresa.

Con troppa facilità,  vecchi uffici dismessi o edifici comunali abbandonati sono diventati, grazie a semplici autocertificazioni,  incubatori in innovazione in grado di godere di esenzioni fiscali ed interessanti facilitazioni per l’accesso al credito.

La situazione economica è dunque davvero triste: i dati del 2014, parlano di perdite globali per 2,4 milioni di euro, pari a 116mila per incubatore.

Gli incubatori più interessanti, in grado di generare utili, sono quelli universitari, ancora oggi considerate vere e proprie eccellenze. I venture accelerator, legati a fondi di venture capital, spesso acquisiscono troppo rapidamente l’intera impresa nel caso di startup, mentre i corporate, sviluppati all’interno di grandi aziende, restano legati al business principale dell’impresa.

Se consideriamo come “in Italia il capitale di rischio disponibile è meno di un decimo di quanto lo è in Franciacome ha spiegato Stefano Mainetti di Polihub – incubatore del Politecnico di Milano – possiamo ben comprendere come la ricetta per poter creare dei validi incubatori sia quella di lasciare da parte i metri quadri, ed iniziare a valutare il fatturato, gli utili in grado di generare per sé e per i propri clienti.

A partire dal fatto che per valutare realmente gli incubatori i metri quadrati e l’entusiasmo mediatico servono davvero a pocoBisognerebbe invece partire dai tradizionali parametri economici (fatturato, utili, dipendenti), passando per il valore generato per i clienti (numero e fatturato aggregato delle start up incubate, capitale di rischio investito, tassi di crescita), fino al valore generato per l’intero ecosistema (network di attori coinvolti, relazioni con investitori, partner nazionali e internazionali).

Se la sfida è quella di far crescere le startup, allora è proprio da lì che noi incubatori dobbiamo partire. Certo, sapendo che in Italia il capitale di rischio disponibile è meno di un decimo di quanto lo è in Francia (170 milioni contro 2,7 miliardi, ndr) è facile comprendere come la nostra missione non sia per nulla semplice”, spiega Stefano Mainetti, chief executive officer di PoliHub, l’incubatore del Politecnico di Milano, oggi valutato secondo l’iniziativa indipendente UBI come il secondo miglior incubatore universitario in Europa e il quinto al mondo.